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Cilento, i moti del 1828

I moti del Cilento del 1828 sono fra gli episodi che hanno maggiormente messo in luce l’eroismo degli abitanti di questa meravigliosa terra.
Nonostante infatti i Moti Cilentani appartengano alle pagine meno conosciute della storia risorgimentale italiana, costituiscono l’esempio lampante di come il popolo possa disegnare attivamente il proprio futuro, e racchiudono, sotto questa definizione, tutti quegli episodi insurrezionali che videro protagonisti, nell’estate del 1828, i membri delle società segrete rivoluzionarie desiderosi di ripristinare la costituzione nel Regno delle Due Sicilie.

L’origine dei moti del Cilento

I moti insurrezionali del 1828 scaturirono dal malcontento diffuso fra i cilentani e videro l’antico comune di Borgo fra i principali protagonisti.
Ferdinando I di Borbone, re delle Due Sicilie, nel 1820 aveva concesso al popolo una costituzione, volta ad ammodernare la gestione politica del suo regno. Dopo soli pochi mesi, però, il re rinnegò tale costituzione, chiedendo l’intervento delle forze della Santa Alleanza per ripristinare un controllo assolutistico sulle sue terre.
La reazione del popolo non si fece attendere: una folla di persone, capitanata da esponenti della Carboneria e da agenti segreti dei Filadelfi, guidata da Antonio Maria De Luca, insieme ai briganti, insorse per reclamare il ritorno alla costituzione.


I fatti del 1828

Gli insorti contavano sui vantaggi offerti dall’asperità del territorio cilentano: il difficile accesso al mare, l’assenza di grandi vie percorribili e la natura montuosa della zona avrebbero dovuto infatti aiutare la rivolta, dato che per i regnanti sarebbe stato molto difficile far sopraggiungere sul luogo le truppe da opporre ai ribelli.
Ma, come purtroppo accade spesso nella storia, il piano si rivelò più efficace sulla carta piuttosto che nella realtà: in questo caso, la delazione forse involontaria di un congiurato, Antonio Galotti, mandò a monte i progetti rivoluzionari della popolazione locale. Egli, infatti, rivelò i dettagli del piano, che prevedeva l’arrivo a Vallo della Lucania di settecento persone armate che avrebbero poi marciato verso la capitale del Regno per costringere il monarca ad applicare le riforme costituzionali tanto anelate dalla popolazione.
In pochi giorni gli insorti riuscirono a occupare il forte di Palinuro e a marciare sui paesi limitrofi, come Camerota e Bosco, ma purtroppo la reazione borbonica non si fece attendere: il re incaricò il maresciallo Francesco Del Carretto di guidare le compagnie militari, sbarcate a Paestum e a Policastro, e di soffocare la rivolta.
La repressione fu durissima: il 7 luglio del 1828, il paese di Bosco, colpevole di aver manifestato un grande entusiasmo nei confronti della rivolta, venne completamente distrutto. I soldati saccheggiarono e incendiarono le case del borgo, fucilando sul posto, dopo un processo sommario, venti patrioti, fra cui il canonico De Luca, considerato uno dei capi dell’insurrezione, e deportando circa cinquanta ribelli. La maggior parte degli insorti si arrese a Vallo della Lucania lo stesso giorno, mentre gli altri si diedero alla macchia.

Epilogo (fonte wikipedia)

Nonostante la ritirata dei rivoltosi, Del Carretto si comportò à la Manhès, con “nera asprezza”: fece prendere a cannonate la frazione di Bosco, peraltro già evacuata dagli abitanti, eseguì ventitré condanne a morte ed espose le teste degli insorti giustiziati nelle località della zona. Mentre la maggioranza degli insorti si arrese a Vallo della Lucania il 7 luglio 1828, il resto sì dette alla macchia.

Non essendo riuscito a catturare il canonico De Luca, Del Carretto minacciò di radere al suolo Celle di Bulgheria, come aveva già fatto con Bosco. De Luca, per evitare al proprio paese natale una sorte spaventosa, si costituì assieme al nipote Giovanni De Luca, anch’egli sacerdote, e ad altri otto insorti. Dopo processo sommario vennero tutti condannati a morte: gli otto laici fucilati all’alba del 19 luglio 1828, i due religiosi il 24 luglio, dopo che l’arcivescovo di Salerno Camillo Alleva li ebbe scomunicati.

Galotti, i Capozzoli e pochi altri riuscirono a fuggire in Corsica. Ritornati nel Cilento l’anno successivo, i Capozzoli vennero arrestati dopo un conflitto a fuoco il 17 giugno 1829 e, dopo un processo sommario, fucilati a Palinuro, davanti a un posto del telegrafo incendiato durante la rivolta, le loro teste mozzate furono portate in mostra nei paesi circostanti. Galotti, che era stato consegnato al Regno delle Due Sicilie da Carlo X di Francia, riuscì a scampare alla pena capitale e a tornare in Francia a causa delle proteste della borghesia francese guidata dal marchese de La Fayette, dopo la Rivoluzione di Luglio.

La repressione borbonica soffocò momentaneamente il malcontento popolare contro i Borbone, che aveva scatenato i moti nel Cilento e nel Salernitano. Ma dopo un paio di decenni la rivolta si riaccese con i moti nel Cilento del 1848. Infatti altri due fratelli Capozzoli, Luigi e Gaetano, furono attivi successivamente contro i Borbone, prendendo parte ai moti cilentani del 1848: il primo morì il 26 settembre 1849 a seguito di uno scontro a fuoco, mentre il secondo, condannato alla galera, uscirà di prigione solo nel 1860, vedendosi riconoscere un vitalizio dal Regno d’Italia di Vittorio Emanuele II.

L’eredità dei Moti Cilentani

Il Cilento e, in particolare, il paese di Bosco, definiti dal maresciallo Del Carretto “terra dei tristi”, vennero invece celebrati all’estero come “terra di eroi”.
Non è un caso, infatti, che, molti anni più tardi, l’esule Josè Garcia Ortega, allievo di Picasso, si stabilì per qualche anno a Bosco dopo assere sfuggito dal regime franchista, regalando al paese che lo aveva accolto il celebre pannello commemorativo sui moti del 1828 che raffigura i soldati borbonici in marcia, pronti a reprimere le aspirazioni di libertà dell’eroica gente del Cilento.

redazione

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